leggendo Italo Calvino...

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Ed era sempre in mezzo a loro a far la morale, a ficcare il naso nei loro affari, a scandalizzarsi e a far prediche. (…) non lo potevano soffrire. I tempi beati e licenziosi (…) erano finiti. Con questo esile figuro (…) nerovestito, cerimonioso e sputasentenze, nessuno poteva fare il piacere suo senz’essere recriminato in piazza suscitando malignità e ripicche. Anche la musica, a furia di sentirsela rimproverare come futile, lasciva e non ispirata a buoni sentimenti, venne loro in uggia.
                            da Il visconte dimezzato, verso la fine del cap. IX

Giulia Marelli 5 A

C’è sempre qualcuno così che si crede superiore e sminuisce gli altri. Oppure qualche intelligente che però fa la figura dello sfigato. O tutt’e due: un intelligente che, proprio perché è tale, non si conforma e irrita gli altri con il suo comportamento da saccente. Tutti siamo dei pettegoli, chi più chi meno.
Ma chi è intelligente non giudica che chi fa così spesso è brutto fisicamente. Rende brutto anche ciò che è bello.
Sputasentenze… chi non lo fa al giorno d’oggi? Tutti si scandalizzano sempre per tutto, ma chi si scandalizza di più è colui che conosce in prima persona lo scandalo, quindi che l’ha vissuto. (Chi ficca il naso ce l’ha lungo, vedi Bea, ma non dirglielo) .
Mia nonna dice sempre “non ti posso soffrire” Utile e futile – la musica bella è quasi sempre considerata lasciva…non bisogna ascoltare chi lo pensa, la musica viene sempre dal cuore. Bisogna essere anticonformisti per vivere nel mondo, ma adattarsi a diventare pecore per esistere. O sei così o non esisti.
Chi può dirmi che cosa è giusto e che cosa non lo è?
Piazza…ha sempre rappresentato il luogo pubblico. Tutti sanno tutto in piazza.

Bonelli Giulia
5 D

La musica? Chi ci pensava più ormai. Il tempo in cui il paese era invaso ogni domenica pomeriggio dalle tremule note dei mandolini che accompagnavano i canti popolari era solo un ricordo lontano. E così pure il teatro, il cinema, il bar della piazza: ogni forma di svago era stata cancellata da quando era arrivato lui, e qualcuno cominciava a dubitare che fosse mai esistita.
Gli abitanti di Cuomolo erano gente semplice, senza pretese. Un gioco da ragazzi per lui.
Era arrivato nel paese in un giorno di pioggia, portandosi appresso un baule di legno di noce e un bastone da passeggio con il pomolo d’argento intarsiato. Aveva attraversato la piazza con passo lento e cadenzato – lo stesso che ora faceva rabbrividire al solo pensiero. Ma lì per lì nessuno si era accorto del suo arrivo, nessuno l’aveva visto. O meglio, l’avevano veduto, ma non ci avevano fatto caso, perché di forestieri a Cuomolo ne andavano e venivano e non era certo una novità.
Aveva preso una camera d’albergo e vi ci si era rinchiuso, facendosi vedere solo una volta al giorno, per mangiare al bar della piazza. Un tipo solitario, diceva la gente: uno di quelli da lasciare in pace e tanto bastava. I Cuomolani erano persone per bene, badavano ai loro affari senza impicciarsi. Solo qualcuno andava dicendo che il forestiero usciva qualche volta da solo, nelle notti senza luna. Che fosse un trafficante d’armi? Ma erano voci, nulla di più.
E poi, dalla sera alla mattina, il sindaco sparisce, il bar della piazza viene chiuso, le feste abolite.
Lavoro, lavoro, lavoro. Ecco l’etica del nuovo padrone, che non chiamavano mai per nome. Era solo “Il Padrone”. Niente più spettacoli, niente più musica, niente più cannoli della domenica, di quelli che vendeva al mercato la moglie del fornaio.
L’intera Cuomolo sembrava essersi adagiata con inerzia nel nuovo regime del Padrone. Tutti erano come assopiti, cercavano di tenere il capo basso e non farsi notare. Tutti, tranne uno.
Romino il falegname, detto Romì, aveva dichiarato al Padrone tacita guerra. Poca cosa, in realtà: lievi mancanze, piccoli sabotaggi qua e là. Nessuno a Cuomolo credeva che potesse servire a qualcosa. Quelli che avevano ancora voglia di scherzare – assai pochi, in realtà – ogni volta che lo incontravano lo apostrofavano:
«Ehi, Romì! Quando la fai, allora, la rivoluzione?»
Ma Romino tirava dritto per la sua strada e non dava retta a nessuno.
E poi un giorno la fece davvero, la rivoluzione. I Cuomolani si alzarono una mattina e trovarono tutto sottosopra. I muri erano verniciati a chiazze gialle e rosse, decine di cani randagi giravano per le vie abbaiando  e guaendo, piccoli fuochi ardevano qua e là, come alimentati da soli. E una musica assordante faceva tremare i vetri delle case: non si sapeva da dove provenisse.
Romino stava là in mezzo, a dirigere le danze, con quella sua solita aria seria seria.
Fu furore generale. I Cuomolani si riversarono per le strade ridendo e urlando, riprendendosi le loro cose, distruggendo a casaccio. Il nome di Romino echeggiava fin nei più remoti angoli del paese.
Per quattro giorni i festeggiamenti proseguirono ininterrotti. Il quinto giorno, senza dire niente a nessuno, Romino se ne andò. Lo cercarono dappertutto ma niente, era sparito nel nulla. E allora i Cuomolani si misero di buona volontà per mettere a posto le cose. Elessero un nuovo sindaco, pulirono le strade, chiamarono i musicanti che accompagnassero i canti popolari delle feste di paese; poi si misero a cercare un altro falegname, perchè Romino non c’era più.
Dopo un po’ lo trovarono. Era un forestiero arrivato in paese in un giorno di pioggia: forse un po’ strano, un po’ solitario, a tratti persino un po’ sospetto… ma i Cuomolani erano brava gente, senza pretese e non facevano mai troppe domande.