PREMESSA |
E’ l’editoriale con cui il direttore Vittorini
apriva il primo numero de Il Politecnico. Si tratta di un intervento
fondamentale per capire l’ansia di rinnovamento espressa da questo giornale.
L’esigenza fondamentale era quella di dar vita ad una “nuova cultura”,
che non si limitasse a “consolare” l’uomo, ma che fosse “capace di
lottare contro la fame e le sofferenze”, e a questo impegno Vittorini
chiamava intellettuali di varia provenienza ideologica, dagli idealisti, ai
cattolici, ai comunisti.
Tutto l’articolo, e in particolare l’affermazione di Vittorini su Gesù
Cristo e sul pensiero cristiano, darà avvio ad un dibattito che trova traccia
nei successivi numeri del giornale.
UNA NUOVA CULTURA
Non più una
cultura che consoli nelle sofferenze ma una cultura che protegga dalle
sofferenze, che le combatta e le elimini.
Per
un pezzo sarà difficile dire se qualcuno o qualcosa abbia vinto in questa
guerra
[1]
. Ma certo vi è tanto che ha perduto, e che si vede come abbia
perduto. I morti, se li contiamo, sono più di bambini che di soldati; le
macerie sono di città che avevano venticinque secoli di vita; di case e di
biblioteche, di monumenti, di cattedrali, di tutte le forme per le quali è
passato il progresso civile dell'uomo; e i campi su cui si è sparso più
sangue si chiamano Mauthausen, Maidanek, Buchenwald, Dakau
[2]
.
Di
chi è la sconfitta più grave in tutto questo che è accaduto? Vi era bene
qualcosa che, attraverso i secoli, ci aveva insegnato a considerare sacra
l'esistenza dei bambini. Anche di ogni conquista civile dell'uomo ci aveva
insegnato ch'era sacra; lo stesso del pane; lo stesso del lavoro. E se ora
milioni di bambini sono stati uccisi, se tanto che era sacro è stato lo
stesso colpito e distrutto, la sconfitta è anzitutto di questa «cosa» che
c'insegnava la inviolabilità loro. Non è anzitutto di questa «cosa» che
c'insegnava l'inviolabilità loro?
Questa
«cosa», voglio subito dirlo, non è altro che la cultura: lei che è stata
pensiero greco, ellenismo, romanesimo, cristianesimo latino, cristianesimo
medioevale,. umanesimo, riforma, illuminismo, liberalismo, ecc., e che oggi fa
massa intorno ai nomi di Thomas Mann e Benedetto Croce, Benda, Huitzinga,
Dewey, Maritain, Bernanos e Unamuno, Lin Yutang e Santayana, Valéry, Gide e
Berdiaev
[3]
.
Non
vi è delitto commesso dal fascismo che questa cultura non avesse insegnato ad
esecrare già da tempo. E se il fascismo ha avuto modo di commettere tutti i
delitti che questa cultura aveva insegnato ad esecrare già da tempo, non
dobbiamo chiedere proprio a questa cultura come e perché il fascismo ha
potuto commetterli?
Dubito
che un paladino di questa cultura, alla quale anche noi apparteniamo, possa
darci una risposta diversa da quella che possiamo darci noi stessi: e non
riconoscere con noi che l'insegnamento di questa cultura non ha avuto che
scarsa, forse nessuna, influenza civile sugli uomini.
Pure,
ripetiamo, c’è Platone in questa cultura. E c’è Cristo. Dico: c’è
Cristo. Non ha avuto che scarsa influenza Gesù Cristo? Tutt’altro. Egli
molta ne ha avuta. Ma è stata influenza, la sua, e di tutta la cultura fino
ad oggi, che ha generato mutamenti quasi solo nell'intelletto degli uomini,
che ha generato e rigenerato dunque se stessa, e mai, o quasi mai, rigenerato,
dentro alle possibilità di fare anche l'uomo. Pensiero greco, pensiero
latino, pensiero cristiano di ogni tempo, sembra non abbiano dato agli uomini
che il modo di travestire e giustificare, o addirittura di render tecnica, la
barbarie dei fatti loro. È qualità naturale della cultura di non poter
influire sui fatti degli uomini?
Io
lo nego. Se quasi mai (salvo in periodi isolati e oggi nell'U.R.S.S.
[4]
) la cultura ha potuto
influire sui fatti degli uomini dipende solo dal modo in cui la cultura si è
manifestata. Essa ha predicato, ha insegnato, ha elaborato princìpi e valori,
ha scoperto continenti e costruito macchine, ma
non si è identificata con la società, non ha governato con la società, non
ha condotto eserciti per la società. Da che cosa la cultura trae motivo
per elaborare i suoi principi e i suoi valori? Dallo spettacolo di ciò che
l'uomo soffre nella società. L'uomo ha sofferto nella società, l'uomo
soffre. E che cosa fa la cultura per l'uomo che soffre? Cerca di consolarlo.
Per
questo suo modo di consolatrice in cui si è manifestata fino ad oggi, la
cultura non ha potuto impedire gli orrori del fascismo. Nessuna forza sociale
era «sua» in Italia o in Germania per impedire l'avvento al potere del
fascismo, né erano «suoi» i cannoni, gli aeroplani, i carri armati che
avrebbero potuto impedire l'avventura d'Etiopia, l'intervento fascista in
Spagna, 1'«Anschluss» o il patto di Monaco. Ma di chi se non di lei stessa
è la colpa
[5]
che le forze sociali non siano forze della cultura, e i cannoni,
gli aeroplani, i carri armati non siano «suoi» ?
La
società non è cultura perché la cultura non è società. E la cultura non
è società perché ha in sé l'eterna rinuncia del «dare a Cesare»
[6]
e perché i suoi princìpi sono soltanto consolatori,
perché non sono tempestivamente rinnovatori ed efficacemente attuali,
viventi con la società stessa come la società stessa vive. Potremo mai avere
una cultura che sappia proteggere l'uomo dalle sofferenze invece di limitarsi
a consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scongiuri, che aiuti a
eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno, questa è
la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura.
La
cultura italiana è stata particolarmente provata nelle sue illusioni. Non vi
è forse nessuno in Italia che ignori che cosa significhi la mortificazione
dell'impotenza o un astratto furore. Continueremo, ciò malgrado, a seguire la
strada che ancora oggi ci indicano i Thomas Mann e i Benedetto Croce? Io mi
rivolgo a tutti gli intellettuali italiani che hanno conosciuto il fascismo.
Non ai marxisti soltanto, ma anche agli idealisti anche ai cattolici, anche ai
mistici. Vi sono ragioni dell'idealismo o del cattolicesimo che si oppongono
alla trasformazione della cultura in una cultura capace di lottare contro la
fame e le sofferenze?
Occuparsi
del pane e del lavoro è ancora occuparsi dell’«anima». Mentre non volere
occuparsi che dell’«anima» lasciando a «Cesare» di occuparsi come gli fa
comodo del pane e del lavoro, è limitarsi ad avere una funzione intellettuale
e dar modo a «Cesare» (o a Donegani, a Pirelli, a Valletta
[7]
) di avere una funzione di dominio «sull'anima» dell'uomo. Può
il tentativo di far sorgere una nuova cultura che sia di difesa e non più di
consolazione dell'uomo, interessare gli idealisti e i cattolici, meno di
quanto interessi noi?
ELIO VITTORINI
(n.
1, 29 settembre 1945)
[1] Il primo numero de Il Politecnico uscì il 29 settembre del 1945. La seconda guerra mondiale si era conclusa da pochi giorni con la capitolazione del Giappone.
[2] Località sedi di campi di concentramento nazisti.
[3] Uomini di cultura, letterati e filosofi, di vario orientamento, che hanno caratterizzato il pensiero del ‘900.
[4] Nell’Unione Sovietica la “cultura” aveva guidato e accompagnato il processo rivoluzionario che nel primo novecento aveva cambiato la società.
[5] Vittorini nel 1957 ripubblicò, in Diario in pubblico, alcune parti di questo articolo, accompagnandole con brevi commenti. A proposito delle “colpe della cultura”, Vittorini annotava: “…E’ lecito…attribuirle una responsabilità negativa per i delitti d’ogni fascismo a condizione di riconoscerne una positiva anche per le riscosse d’ogni antifascismo”; mentre a proposito del rapporto tra cultura e società, che nell’articolo è in qualche modo auspicato, Vittorini commentava: “Ma se la cultura si identificasse interamente con la società potrebbe poi continuare a vivere, e cioè a rinnovarsi…?” (dove si può facilmente vedere un’eco dei ripensamenti vittoriniani seguiti alla polemica degli anni 1946-47 su cultura e politica con i dirigenti del P.C.I.).
[6] L’espressione evangelica “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, viene qui da Vittorini utilizzata per polemizzare contro la concezione di una cultura “separata” dalla società, come era la cultura tradizionale: a questa visione Vittorini oppone l’idea che sia la cultura a guidare la società, che cioè la cultura non si occupi solo “dell’anima” dell’uomo, lasciando “il corpo” in balia dei vari poteri (economici e politici), guidati da logiche che portano allo sfruttamento dell’uomo.
[7] Nomi di tre famosi imprenditori, in quegli anni alla guida rispettivamente della Montedison, della Pirelli e della FIAT.