PREMESSA

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Sul numero 9 de Il politecnico, uscito il 24 novembre del 1945, fu pubblicato un articolo sul divorzio scritto da Arturo Carlo Jemolo, professore  di diritto ecclesiastico all’università di Roma. Ad esso seguiva una risposta di Vittorini, che non condivideva le posizioni del giurista cattolico.
Il tema del divorzio diede luogo in Italia a lunghe battaglie ideologiche anche negli anni seguenti: solo nel 1970 il divorzio venne introdotto nel nostro paese da una legge, poi confermata da un referendum popolare nel 1974.
Riportiamo qui sia l’articolo di Jemolo sia la risposta (in caratteri corsivi) di Vittorini

 

URGE IL DIVORZIO IN ITALIA?

 

Se ben vedo, la famiglia italiana è tra le istituzioni più robuste del nostro popolo. L'amore per i figli è quasi senza eccezioni. Truci delinquenti, loschi truffatori, donne senza pudore, si riscattano fin dove è possibile con la tenerezza, con lo spirito di sacrificio, verso i figlioli. Mi pare che questo senso della famiglia sia andato sempre più rafforzandosi nel mezzo secolo che mi è dato rievocare; non mi sembra che papà e mamme fossero tutti così teneri come sono oggi, quando ero bambino; un tempo, molti uomini si sarebbero vergognati di dover confessare di non aver mai fatto uno strappo alla fedeltà coniugale, mentre oggi i più se ne vantano (persino quando non è vero); la «mantenuta», la «famiglia della mano sinistra», nella borghesia di quarant'anni or sono erano istituzioni in onore; oggi non se ne scorgono quasi più tracce.

Non soltanto la famiglia italiana è forte, ma lo è ad un punto tale, che tutte le altre istituzioni ne restano al confronto indebolite; è come una capsula di acciaio che debba alla sua volta essere incapsulata entro una consecutiva serie d'involucri di materiale ben più fragile; l'omogeneità del tutto non ne guadagna. L'italiano può essere buon impiegato, buon ufficiale, buon politicante, buon cittadino, fino al punto in cui la famiglia non soffra della sua dedizione ad un altro ordine di doveri: quando si dà quel contrasto, pochissimi sono in grado di sacrificare la famiglia, e agli occhi dei più passano, per tale fatto, in rinomanza di fanatici o di eroi. Questo lascia anche trapelare che quell'organismo familiare è robusto, ma non perfetto; vi ha troppo posto l'istinto, e troppo scarso dominio un alto anelito morale. Quante madri, onestissime donne, non sono orgogliose delle prime non caste prodezze amatorie dei loro figli, e spietate per le vittime, se ve ne fossero!

Mi parrebbe quindi fuor di luogo pensare al divorzio in funzione di un rafforzamento dell'istituto familiare italiano, che di rafforzamento non ha alcun bisogno, ma, se mai, di un assoggettamento degl'istinti affettivi ad una legge morale.

Il problema del divorzio non interessa che una minoranza di persone: almeno come problema diretto, non ideologico, ma che tocchi la vicenda della propria vita. In basso, tra i più miseri, i problemi di stato civile interessano poco. In certe zone di miseria nera s'incontrano strane famiglie, costituite intorno ad una coppia, e che accolgono figli nati da questa unione, figli che l'uomo e la donna ebbero da altri incontri, talora bambini che sono il relitto lasciato al compagno od alla compagna da una donna o da un uomo di una precedente convivenza. Anche quando lo stato civile consentirebbe di regolarizzare certe unioni, nessuno vi pensa. Fuori di questi strati infimi, solo in casi sporadici l'indissolubilità del matrimonio gronda veramente di lacrime.

Certamente, ciascuno ha nella cerchia delle sue relazioni almeno un esempio di famiglia la cui vita è avvelenata, talvolta inceppato l'avvenire dei figli, dalla impossibilità di apporre il suggello legale alla famiglia stessa, per ciò che lui o lei hanno un marito od una moglie, da cui sono separati da un quarto di secolo o più, e che spesso alla loro volta hanno dato vita ad un focolare non consacrato. Non mancano casi pietosi e degni di ogni considerazione. Ma non formano massa.

Per noi cattolici non esiste una questione del divorzio. Ma comprendo benissimo che si possa impostarla così: «una volta ammesso che nella vita dello Stato non possa una maggioranza religiosa imporre alla totalità dei cittadini neppure le fondamentali tra le regole di vita che sono ad essa peculiari; che pertanto la questione del divorzio non possa essere impostata che su argomenti extra-confessionali: cosa deve dirsi alle consuete ragioni antidivorziste recate: che l'istituzione del divorzio inciti i coniugi, specie nei primi anni, a non sopportare, a non tollerare, a non compiere lo sforzo verso quei necessari adattamenti su cui si fondano le nuove famiglie; che, ammesso il divorzio anche per sole cause gravissime, la ragione sia poi tratta ad ammetterlo pure per ragioni futili; che tra Paesi della stessa cultura e dello stesso grado di civiltà quelli divorzisti assumano un livello morale più basso degli altri?».

Non credo facile dare risposta sicura.

Ma se anche si dovesse riconoscere che questi classici argomenti antidivorzisti non abbiano salda consistenza penserei sempre che nell'ordine delle questioni che l'Italia deve affrontare, quella del divorzio non possa avere che un posto infimo; e che sarebbe estremamente impolitico ed improvvido impostarla oggi.

In politica, inutile andare a ricercare se i partiti che si hanno di fronte a ragione od a torto abbiano assunto certe posizioni. Potrà anche essere esatto che i partiti che hanno accettato il canone per cui lo Stato non può imporre ai cittadini l'osservanza di alcun precetto religioso, pecchino d'illogicità allorché fanno una eccezione per la indissolubilità del matrimonio. Questo non toglie che la più gran parte dei cattolici si sentirebbe ferita da un progetto sul divorzio, che si renderebbe impossibile quella collaborazione tra democrazia cristiana e partiti di sinistra, che è invece possibile, e può essere utile e feconda, a patto di accantonare i problemi confessionali, quello del divorzio incluso.

Sarebbe un grande apporto alla reazione, che spera proprio su un qualche fatto nuovo atto ad impedire la collaborazione dei cattolici con tutti i partiti decisi ad opporsi ad ogni ritorno al passato.

 

A. C. JEMOLO

 

 

Arturo Carlo Jemolo, nato nel 1891, professore di diritto ecclesiastico all'Università di Roma, è uno dei nostri più valorosi giureconsulti. Studioso di tutti i problemi riguardanti i rapporti fra lo Stato e la Chiesa, è autore di importanti opere su: Stato e Chiesa negli scrittori politici italiani del '600 e del '700; su: Crispi [1] ; sul: Giansenismo [2] in Italia. La sua profonda dottrina in materia di diritto ecclesiastico lo rende particolarmente indicato a esprimere il parere dei cattolici sul problema del divorzio. Ma i lettori avevano chiesto quale fosse, su questo problema, il parere personale di «Vittorini». In senso assoluto, e in linea ideologica, io non posso non essere personalmente per il divorzio [3] . Né penso solo ai casi che grondano, come Jemolo dice, di lagrime.

Penso anche ai casi non propri della nostra borghesia, i casi innumerevoli di quegli «strati infimi», di quelle «zone di miseria nera» ai quali Jemolo ha accennato, poiché ritengo che avrebbero una soluzione «non più» abbietta il giorno in cui si avesse i1 divorzio in Italia; o l'indomani di quel giorno, una generazione dopo quel giorno... D'altra parte io non posso considerare inscindibile dall'insegnamento di Cristo l'avversione cattolica per il divorzio. Gesù Cristo prese posizione contro il divorzio: è chiaro nei testi sacri. Ma contro quale divorzio? Contro il divorzio che praticava la società ebraica; contro il divorzio che permetteva al maschio di scacciare la donna appena gli fosse venuta a noia; contro un divorzio che aveva per premessa la schiavitù fisica e spirituale della donna. Questo è, storicamente, il divorzio che Gesù Cristo combatte, come già alcuni dei profeti, e Malachia (2, 10-16) in particolar modo. Cioè Cristo combatte per l'eguaglianza tra uomo e donna, per l'elevazione della donna, per la sua liberazione dallo stato di schiavitù in cui la teneva, rispetto al maschio, la società ebraica. Ora, coloro per i quali Cristo è cultura, non possono, e io con essi non posso, prendere alla lettera le parole che Cristo ritenne di dover pronunciare allo scopo di combattere efficacemente «quella forma di divorzio». Quelle Sue parole non possono essere valide oggi per noi allo stesso modo in cui furono valide e rivoluzionarie nel momento storico in cui Egli le pronunciò. Il valore che noi diamo a quelle Sue parole è per noi rivoluzionario e trasformatore in quanto risponde a una situazione storica, e cioè in quanto è storico.

Ma oltre la lettera delle Sue parole, c'è lo spirito di esse; e questo per noi è ancora oggi valido, lo spirito di quelle Sue parole, quando riteniamo che un divorzio istituito su una base di assoluta parità tra uomo e donna sarebbe un passo di più nell'opera di liberazione della donna che Gesù Cristo ha iniziato, e nella liberazione di tutti, uomini e donne, dal fariseismo [4] della menzogna.

                                                                                                                                            V.

(n. 9, 24 novembre 1945)                                                         .

[1] Uomo politico nato a Ribera e morto a Napoli nel 1901. Partecipò attivamente alla politica italiana ed europea del periodo. Scrisse molti libri i argomento politico.

[2] Movimento teologico ed eresia, la più importante e duratura che abbia turbato la vita del cattolicesimo nel diciassettesimo e diciottesimo secolo.

[3] Parere personale di Vittorini probabilmente influenzato dalla sua vita privata; del resto in molti dei suoi romanzi Vittorini affronta il tema della crisi della coppia e della famiglia (vedi ad esempio in Conversazione in Sicilia e in Erica e i suoi Fratelli).

[4] Il fariseismo è un atteggiamento ipocrita, falso. Storicamente il termine viene da un movimento politico e religioso ebreo, i cui aderenti furono accusati da Gesù Cristo di essere attenti all’esteriorità più che alla sostanza (cfr. ad esempio Matteo, 23, 1-12).