PREMESSA

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Il brano riporta tutto il capitolo XXXIII, che si trova nella quarta parte del romanzo. Il protagonista, Silvestro, ha appena terminato di assistere la madre nelle sue visite domiciliari durante le quali fa iniezioni ai malati del paese. Mentre cammina solitario Silvestro nota la presenza di un arrotino e gli si fa incontro. I due iniziano a parlare. Questo capitolo è molto importante perché segna un punto di svolta nel “viaggio” di Silvestro che da questo momento in poi conoscerà persone che come lui cercano“altri valori”.

 

Tutta la strada era in pieno sole aperta sulla valle, e l'arrotino scintillava da piú punti di sé e della sua carriola [1] , nero in faccia ai miei occhi abbagliati dalla luce.

 «Arrota, arrota!» egli gridò alle finestre del palazzo. Stridette la sua voce, beccando vetri e sasso; e io notai ch'era una specie di selvaggio uccello [2] con in testa uno di quei copricapi che si vedono per le campagne in testa agli spauracchi [3] . «Nulla da arrotare?» gridò.

Parve ora rivolgersi a me e io lasciai il paracarro [4] , mi avvicinai alla sua voce attraversando la strada.

«Dico a voi, forestiero» egli gridò.

Era grande nelle gambe spennacchiate e sembrava in qualche modo appollaiato sul suo cavalletto, mandando la ruota avanti e indietro per prova. «Avete portato niente da arrotare in questo paese? [5] » gridò.

La ruota del viaggio ricominciava ormai a muoversi in me [6] , cosí mi frugai nelle tasche, prima in una poi in un'altra, e mentre andavo a una terza l'uomo continuò: «Non avete da arrotare una spada? Non avete da arrotare un cannone?»

Io tirai fuori un temperino, e l'uomo me lo strappò di mano, attaccò furiosamente ad arrotare; e mi guardava, nero in faccia come per fumo.

Gli domandai: «Non avete molto da arrotare, in questo paese?»

«Non molto di degno» l'arrotino rispose. E sempre mi guardava, mentre le sue dita ballavano, con la piccola lama tra esse, nel turbinio della ruota; ed era ridente, era giovane, era un simpatico tipo di magro sotto il vecchio copricapo da spaventapasseri.

«Non molto di degno» disse. «Non molto che valga la pena. Non molto che faccia piacere.»

«Arroterete bene dei coltelli. Arroterete bene delle forbici» dissi io.

E l'arrotino: «Coltelli? Forbici? Credete che esistano ancora coltelli e forbici a questo mondo? [7] »

E io: «Avevo idea di sì. Non esistono coltelli e forbici in questo paese?»

Scintillavano come bianco di coltelli gli occhi dell'arrotino, guardandomi, e dalla sua bocca spalancata nella faccia nera la voce scaturiva un po' rauca, d'intonazione beffarda. «Né in questo paese, né in altri» egli gridò. «Io giro per parecchi paesi, e sono quindici o ventimila le anime per le quali arroto; pure non vedo mai coltelli, mai forbici.»

Dissi io: «Ma che vi dànno da arrotare se non vedete mai coltelli, mai forbici?»

E l'arrotino: «Questo lo domando sempre loro. Che mi date da arrotare? Non mi date una spada? Non mi date un cannone? E li guardo in faccia, negli occhi, vedo che quanto mi dànno non può chiamarsi nemmeno chiodo.»

Tacque, ora, smettendo anche di guardarmi; e si curvò sulla ruota, accelerò sul pedale, arrotò furiosamente in concentrazione per più di un minuto. Infine disse: «Fa piacere arrotare una vera lama. Voi potete lanciarla ed è dardo, potete impugnarla ed è pugnale. Ah, se tutti avessero sempre una vera lama!»

Chiesi io: «Perché? Pensate succederebbe qualcosa?»

«Oh, io avrei piacere ad arrotare sempre una vera lama! [8] » l'arrotino rispose.

Tornò ad arrotare in furiosa concentrazione per qualche secondo, poi, rallentando, e sottovoce, soggiunse: «Qualche volta mi sembra basterebbe che tutti avessero denti e unghie da farsi arrotare. Li arroterei loro come denti di vipera, come unghie di leopardo...»

Mi guardò e mi strizzò l'occhio, luccicante negli occhi e nero in faccia, e disse: «Ah! Ah!»

«Ah! Ah!» dissi io, e strizzai l'occhio a lui.

E lui si chinò al mio orecchio, mi parlò nell'orecchio. E io ascoltai le parole sue al mio orecchio, ridendo, «ah! ah!», e parlai nell'orecchio a lui, e fummo due che si parlavano all'orecchio, e ridevamo, ci battevamo le mani sulle spalle.


[1] Il  sole si riflletteva in più punti contro la struttura metallica della carriola. La luce è importante come metafora della rivelazione.

[2] L’arrotino è qui paragonato ad un “selvaggio uccello”. Infatti per chiamare i clienti strilla come uno di questi e la sua voce colpisce come il becco di un uccello.

[3] Spaventapasseri.

[4] Ciglio della strada.

[5] Domanda simbolica attraverso la quale Calogero cerca di capire se Silvestro ha idee rivoluzionarie. Comincia qui la metafora che paragona “lame e coltelli” ai rivoluzionari e “l’arrotare” alla rivoluzione vera e propria.

[6] Silvestro sente dentro di sé muoversi qualcosa che, già avviatosi con la lettera del padre (cap. II), lo sta conducendo a prendere consapevolezza dei suoi “astratti furori” e delle “offese” al mondo.

[7] Calogero, l’arrotino, rappresenta l’ideologia rivoluzionaria. La vera domanda è dunque: “Vi sono ancora rivoluzionari?”.

[8] L’arrotino vorrebbe iniziare nuove persone alla rivoluzione.