PREMESSA |
Io conoscevo questo e più di questo, potevo comprendere la miseria di un malato e della sua gente attorno a lui, nel genere umano operaio [1] . E non la conosce l’uomo? Non può comprenderla ogni uomo? Ogni uomo è malato a sua volta, nel mezzo della sua vita, e conosce quest’estraneo che è il male, dentro a lui, l’impotenza sua con quest’estraneo; può comprendere il proprio simile…
Ma forse non ogni uomo è uomo; e non tutto il genere umano è genere umano. Questo è un dubbio che viene, nella pioggia, quando uno ha le scarpe rotte, acqua nelle scarpe rotte, e non più nessuno in particolare che occupi il cuore, non più vita sua particolare, nulla più di fatto e nulla da fare, nulla neanche da temere, nulla più da perdere, e vede, al di là di se stessa, i massacri del mondo. Un uomo ride e un altro uomo piange. Tutti e due sono uomini; anche quello che ride è stato malato, è malato; eppure egli ride perché l’altro piange. Egli può massacrare, perseguitare, e uno che, nella non speranza, lo vede che ride sui suoi giornali e manifesti di giornali, non va con lui che ride ma semmai piange, nella quiete, con l’altro tutto il genere umano, ma quello soltanto del perseguitato. Uccidete un uomo; egli sarà più uomo. E così è più uomo malato, un affamato; è più genere umano il genere umano dei morti di fame.
Chiesi a mia madre: “Tu che ne pensi?”
“Di che?” mia madre disse.
E io: “Di tutti questi ai quali fai la iniezione”.
E mia madre: “Penso che forse non potranno pagarmi”.
“Va bene” dissi io. “E ogni giorno vai lo stesso da loro, fai loro la iniezione, e speri che invece possano pagarti, in qualche modo. Ma cosa pensi di loro?”
“Io non spero [2] ” disse mia madre. “Io so che qualcuno può pagarmi e qualcuno no. Io non spero”.
“Oh!” mia madre esclamò. “Se vado per uno posso andare anche per un altro” disse. “Non mi costa nulla”.
“Ma cosa pensi di loro? Cosa pensi che sono?” io dissi.
Mia madre si fermò in mezzo alla strada dove eravamo e mi rivolse un’occhiata leggermente strabica. Sorrise anche, disse:
“Che strane [3] domande fai! Cosa debbo pensare che sono? Sono povera gente con un po’ di tisi o con un po’ di malaria…”
Io scossi il capo. Facevo delle strane domande, mia madre poteva vedere questo, eppure non mi dava delle strane risposte. E io questo volevo, strane risposte. Chiesi:
“Hai mai visto un cinese [4] ?”
“Certo” mia madre disse. “Ne ho visto due o tre… passano per vedere le collane”.
“Bene” dissi io. “Quando hai davanti un cinese e lo guardi e vedi, nel freddo, che non ha cappotto, per il freddo e ha il vestito stracciato e le scarpe rotte, che cosa pensi di lui?”
“Ah! Nulla di speciale” mia madre rispose. “Vedo molti altri, qui da noi, che non hanno cappotto per il freddo e hanno il vestito stracciato e le scarpe rotte…”
“Bene” dissi io. “Ma lui è un cinese, non conosce la nostra lingua e non può parlare con nessuno, non può ridere mai, viaggia in mezzo a noi con le sue collane e cravatte, con le sue cinture, e non ha pane, non ha soldi, e non vede mai nulla, non ha speranza. Che cosa pensi tu di lui quando lo vedi che è così un povero cinese senza speranza?”.
“Oh!” rispose mia madre. “Molti altri che non sono poveri cinesi hanno la faccia gialla, il naso schiacciato e forse fanno puzza. Non sono poveri cinesi, sono poveri siciliani, eppure non possono avere nulla”.
“Ma vedi” dissi io. “Egli è un povero cinese che si trova in Sicilia, non in Cina, e non può nemmeno parlare del bel tempo con una donna. Un povero siciliano invece può…”.
“Perché un povero cinese non può?” chiese mia madre.
“Bene” dissi io. “Immagino che una donna non darebbe nulla a un povero viandante che fosse un cinese invece di un siciliano”.
Mia madre si accigliò.
“Non saprei” disse.
“Vedi?” io esclamai. “Un povero cinese è più povero di tutti gli altri. Cosa pensi tu di lui?”.
Mia madre era stizzita.
“Al diavolo il cinese” disse.
E io esclamai: “Vedi? Egli è più povero di tutti i poveri e tu lo mandi al diavolo. E quando lo hai mandato al diavolo e lo pensi, così povero nel mondo, senza speranza mandato al diavolo, non ti sembra che sia più uomo, più genere umano di tutti?”.
Mia madre mi guardò sempre stizzita.
“Il cinese?” disse.
“Il cinese” dissi io. “O anche il povero siciliano che è malato in un letto come questi ai quali fai l’iniezione. Non è più uomo e più genere umano, lui?”.
“Lui?” disse mia madre.
“Lui” dissi io.
E mia madre chiese: “Più di chi?”.
Risposi io: “Più degli altri. Lui che è malato… Soffre”.
“Soffre?” esclamò mia madre. “È la malattia”.
“Soltanto?” io dissi.
“Togli la malattia e tutto è passato” disse mia madre. “non è nulla… è la malattia”.
Allora io chiesi:
“E quando ha fame soffre, che cos’è?”.
“Bene, è la fame” mia madre rispose.
“Soltanto?” io disse.
“Come no?” disse mia madre. “Dagli da mangiare e tutto è passato. È la fame”.
Io scossi il capo. Non potevo avere strane risposte da mia madre, eppur chiesi ancora:
“E il cinese?”.
Mia madre, ora, non mi diede risposta; né strana, né non strana; e si strinse nelle spalle. Essa aveva ragione, naturalmente: togliete la malattia al malato, e non vi sarà dolore; date da mangiare all’affamato e non vi sarà più dolore. Ma l’uomo, nella malattia, che cos’è? E che cosa è nella fame?
Non è, la fame, tutto il dolore del mondo diventato fame? Non è, l’uomo nella fame, più uomo? Non è più genere umano? E il cinese?…