PREMESSA |
In quest'articolo, pubblicato nel 1947 sul quotidiano L'Unità, Cesare Pavese ricostruisce il clima culturale nel quale nacque l'avventura di Americana.
Verso il 1930, quando il fascismo cominciava a essere «la
speranza del mondo», accadde ad alcuni giovani italiani di scoprire nei suoi
libri l’America, una America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta,
feconda, greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane, innocente.
Per qualche anno questi giovani lessero tradussero e scrissero con una
gioia di scoperta e di rivolta che indignò la cultura ufficiale, ma il successo
fu tanto che costrinse il regime a tollerare, per salvare la faccia. [...] Per
molta gente l’incontro con Caldwell, Steinbeck, Saroyan, e perfino col vecchio
Lewis, aperse il primo spiraglio di libertà, il primo sospetto che non tutto
nella cultura del mondo finisse coi fasci. Va da sé che, per chi seppe, la vera
lezione fu più profonda. Chi non si limitò a sfogliare la dozzina o poco più
di libri sorprendenti che uscirono oltreoceano in quegli anni ma scosse la
pianta per farne cadere anche i frutti nascosti e la frugò intorno per
scoprirne le radici, si capacitò presto che la ricchezza espressiva di quel
popolo nasceva non tanto dalla vistosa ricerca di assunti sociali scandalosi e
in fondo facili, ma da un’ispirazione severa e già antica di un secolo a
costringere senza residui la vita quotidiana nella parola. [...] A questo punto
la cultura americana divenne una sorta di grande laboratorio dove con altra
libertà e altri mezzi si perseguiva lo stesso compito di creare un gusto uno
stile un mondo moderni che, forse con minore immediatezza ma con altrettanta
caparbia volontà, i migliori tra noi perseguivano.
Quella cultura ci apparve insomma un luogo ideale di lavoro e di ricerca, di
sudata e combattuta ricerca, e non soltanto la Babele di clamorosa efficienza,
di crudele ottimismo al neon che assordava e abbacinava gli ingenui e, condita
di qualche romana ipocrisia, non sarebbe stata per dispiacere neanche ai
provinciali gerarchi nostrani.
Ci si accorse, durante quegli anni di studio, che l’America non era un altro
paese, un nuovo inizio della storia, ma soltanto il gigantesco teatro dove con
maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti. E se per un
momento c’era apparso che valesse la pena di rinnegare noi stessi e il nostro
passato per affidarci corpo e anima a quel libero mondo, ciò era stato per
l’assurda e tragicomica situazione di morte civile in cui la storia ci aveva
per il momento cacciati.
La cultura americana ci permise in quegli anni di vedere svolgersi come su uno
schermo gigante il nostro stesso dramma. Ci mostrò una lotta accanita,
consapevole, incessante, per dare un senso un nome un ordine alle nuove realtà
e ai nuovi istinti della vita individuale e associata, per adeguare ad un mondo
vertiginosamente trasformato gli antichi sensi e le antiche parole dell’uomo.
Com’era naturale in tempi di ristagno politico, noi tutti ci limitammo allora
a studiare come quegli intellettuali d’oltremare avessero espresso questo
dramma, come fossero giunti a parlare questo linguaggio, a narrare, a cantare
questa favola. Parteggiare nel dramma, nella favola, nel problema non potevamo
apertamente, e così studiammo la cultura americana un po' come si studiano i
secoli del passato, i drammi elisabettiani o la poesia del dolce stil novo.
Cesare Pavese
"Ieri e oggi" in «L’Unità» (3 agosto 1947). Ristampato in: Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi, 1959, p.193-196.